«Lo zifio è questa palla di grasso qui» spiega, puntando il dito nel mezzo di un poster su cui nuota ogni genere di cetaceo.
«É un ciccione che vive a grandi profondità, ed è molto timido, è quasi invisibile. Proprio per questo è difficile riuscire a studiarlo, ma qualche mese fa abbiamo avuto un colpo di fortuna e ce ne è arrivato uno in condizioni perfette, perché dove l’hanno trovato c’erano meno dieci gradi». Sandro Mazzariol, veneziano classe 1976, di mestiere fa questo: studia le balene spiaggiate, cercando di capire cosa le uccide.
Il suo gruppo di ricerca (sono una quindicina fra docenti, specializzandi e tecnici) è fatto di pionieri, perché quando hanno iniziato ad occuparsi di questi fenomeni, in Italia c’era il deserto dei Tartari. Poi piano piano si sono fatti strada: «Nel 2009 c’è stato uno spiaggiamento di massa nella zona di Foggia, in Puglia - racconta il patologo veterinario -, e quello, per noi, è stato il grande inizio: lì è arrivata l’attenzione dei media, e il lavoro che abbiamo potuto svolgere ci ha permesso di accedere ai primi finanziamenti».
Nel 2014 c’è stato un secondo spiaggiamento a Vasto e, con l’esperienza maturata anche dal punto di vista organizzativo, siamo riusciti a salvare quattro capodogli su sette». Un risultato incredibile, perché «la maggior parte delle volte, quando arrivano nelle acque basse, questi animali sono già morti, o talmente compromessi che si sceglie l’eutanasia».
Alle spalle, Mazzariol ha un passato (ma anche un presente) da fervente ambientalista: «Sono nato e cresciuto a Porto Marghera - racconta -, e quando ero bambino mio padre mi portava alle manifestazioni contro le discariche abusive. Per me era naturale far mia la battaglia per l’ambiente. Mia madre, invece, mi ha trasmesso l’amore per gli animali. Ho passato anni di militanza con Green Peace, poi questo è diventato il mio lavoro».
Nel 2014 questa dedizione è stata premiata con un riconoscimento importante: la guida dello Stranding Working Group, uno dei gruppi chiave per la Commissione baleniera internazionale, costola delle Nazioni Unite che si occupa della salvaguardia delle balene.
«Riceviamo segnalazioni da tutto il mondo - spiega lo studioso -. L’ultima arrivata viene dal Mozambico, dove si sono spiaggiate tre balene. Principalmente, diamo indicazioni su come comportarsi: dalle più elementari, come “fate in modo che l’animale non venga mangiato”, ad altre di natura organizzativa. Rimuovere una balena non è una bazzeccola».
I veterinari padovani (fra cui, in prima linea, c’è Cinzia Centelleghe), si sono occupati anche del capodoglio ritrovato di recente sulla costa sarda, con 22 chili di plastica nello stomaco. Sembra una quantità enorme, ma negli Stati Uniti, assicurano gli studiosi, sono stati trovati esemplari che se n’erano ingurgitati fino a 80 chili. In quel caso l’animale è stato segnalato quando era già morto, e il corpo era già in stato di decomposizione.
Per la ricerca di materiale ce n’era poco, ma la salma farà da “cavia” per un innovativo progetto, che l’Università di Padova ha potuto realizzare grazie ai fondi ministeriali per i dipartimenti di eccellenza: si chiama “Ecce acqua” e, grazie all’acquisto di sofisticate stampanti 3d, permetterà di ricostruire l’anatomia di grandi animali acquatici. I modelli, poi, saranno usati per la docenza, l’educazione e la didattica.
Silvia Quaranta