Si dice che Carlo Magno abbia affermato: “Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima”.
Oggi, nel mondo, ci sono circa 7000 lingue parlate che differiscono l’una dall’altra in molti modi: suoni, parole e, fondamentali, strutture diverse, ed è incredibile come queste differenze vadano ad influire sul nostro modo di pensare e sui nostri atteggiamenti.
Questo concetto è da sempre oggetto di moltissimi studi e teorie, ed è ciò di cui si occupa la scienziata dei processi cognitivi della Stanford University, Lera Boroditsky. Uno dei suoi esempi preferiti, riportato negli interventi e negli articoli accademici dei quali è protagonista, riguarda una comunità di aborigeni in Australia, i Kuuk Thaayorre, che vive all’estremo lato ovest di Cape York.
Nella loro lingua natia non usano parole come “sinistra” e “destra”, ma fanno riferimento a tutto con i punti cardinali, tanto che potrebbero dirvi “Hai una formica sulla gamba a sud ovest” e per salutare e dire “ciao”, esprimersi con “Dove stai andando?”. Potete quindi immaginare e capire bene come l’orientamento assuma un ruolo centrale nella loro cultura, e quanto essi siano ben orientati, molto più di quanto potremmo mai esserlo noi.
Pensiamo, poi, all’importanza delle parole: secondo gli studi di Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano, la parola che indica lo stesso oggetto in lingue diverse, può acquistare sfumature differenti e stimolare nel nostro cervello pensieri e richiami opposti. La parola “drago”, in cinese indica non soltanto l’animale fantastico, ma è anche simbolo di fortuna, quindi un madre- lingua cinese avrà una visione diversa di un animale irreale, rispetto a quella che avrà un occidentale.
Interessante, inoltre, è il modo in cui le lingue descrivano gli eventi. Nel caso di un imprevisto, ad esempio, in inglese è corretto dire “Lui ha rotto il vaso”, mentre nel caso dello spagnolo si dice “Il vaso è stato rotto”. Ecco che gli inglesi tenderanno a ricordare più facilmente chi è responsabile, chi ha provocato cosa, mentre lo spagnolo, nella maggior parte dei casi, focalizzerà l’attenzione sull’evento in sé stesso. Tutto ciò ha delle implicazioni giuridiche, ed ecco spiegata la tendenza anglosassone a punire il colpevole, ancora prima che a risarcire la vittima.
Pensiamo, ancora, alle lingue in cui non vi sono tempi verbali che indicano il futuro. Ciò comporta una visione degli eventi che verranno come un qualcosa di molto attuale e vicino, tanto da determinare una maggiore propensione al risparmio nella popolazione. O consideriamo invece il verbo “innamorarsi” in italiano, che in inglese è tradotto con “to fall in love”, letteralmente “cadere in amore”: nella nostra lingua ha in sé un significato e una concezione “attivi”, come se mettesse colui che si innamora in una posizione di potere e controllo; in inglese invece, la visione è molto più passiva e succube, come se l’innamoramento fosse un evento inevitabile, qualcosa in cui si cade. Ed è normale che ciò vada ad influenzare la concezione di amore nella cultura.
Il nostro linguaggio influenza il nostro ‘Io’, a tal punto che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali e a dire ciò che pensiamo con meno “filtri”. Questo perché, sempre secondo Abutalebi: “Un idioma che non si è appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni, perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica e dei sentimenti.”
La lingua in cui ci esprimiamo ha delle potenzialità davvero inimmaginabili, e alla luce di ciò è facile constatare quanto studiare, e parlare diversi idiomi, possa stimolare il nostro cervello e ampliare i nostri orizzonti di pensiero, portandoci a scoprire sfumature di noi stessi che ancora non avevamo avuto l’opportunità di conoscere.
Anna Zilio
Mente e corpo
Essere e parlare: la lingua influenza la personalità
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Essere e parlare: la lingua influenza la personalità
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